Di generazione in generazione (Lino Da Acerce - figlio, padre e insegnante)

 


Marco. 0 anni e 5 mesi. Mio figlio, secondogenito, fratello di Stefano.
Giuseppina. 89 anni e 8 mesi. Mia nonna materna.

Il primo è uno scrigno di possibilità ancora inespresse, raccolto in 65 cm di lunghezza; la seconda, un profondo serbatoio di storia racchiuso in una mente che, giorno dopo giorno, diventa sempre più inaccessibile. Un pianto talvolta inconsolabile per fame, sonno e fastidi di varia natura, il primo; un mosaico di frammenti di antichi ricordi dentro una completa ignoranza riguardo tempi e spazi della vita quotidiana, la seconda.

“Prendiamo ad esempio un neonato: non si esibisce, esiste, e come tale è una struttura che interpella […] Le fragilità ci interpellano, interrompendo le abitudini” [1]

In che senso le fragilità ci interpellano? Si potrebbe pensare che semplicemente ci chiedano cura, reclamando la nostra attenzione, cosa peraltro molto concreta e tangibile nel pianto notturno di un bambino, o in un’anziana che richiede presenza costante e prevenzione dei suoi tentativi di fuga. Ma esiste anche un livello più profondo di connessione, dove entrare in relazione con un’altra persona fa vibrare identiche corde, rivela un’identica carne.

Perché quel malcelato fastidio di fronte ad un’anziana che costantemente ti confonde con un altro? Perché la fatica a sopportare l’ennesimo vagito, l’ennesima richiesta di aiuto? Come spiega René Girard prendendo in prestito una celebre citazione di Sartre, l’inferno sono gli altri non perché differenti da noi, ma proprio perché in essi riconosciamo una parte di noi stessi [2]. Ogni incontro con la fragilità altrui disvela una parte di noi stessi che preferiremmo dimenticare, nascondere, prima di tutto a noi stessi. Credo si possa affermare che nessuno è più autentico di una vecchia con l’Alzheimer o di un bambino di pochi mesi; eppure, questa manifestazione dell’altro davanti a noi, nella sua unicità, parla proprio di noi: rende evidente la fragilità che siamo, proclama la fragilità che siamo stati, annuncia la fragilità che potremmo un giorno diventare. Non è possibile rimanere indifferenti, perché ogni persona che incontriamo, pur ponendosi di fronte a noi come “totalmente altro”, si rivela e ci provoca proprio per ciò che riconosciamo identico a noi. 

“Ogni incontro tra me e un altro, in qualche modo mi rivela, rispecchiandomi.” [3]

In un sano e intenso “rispecchiamento” sta molta parte della relazione educativa, di promozione e di cura, anche dentro il microuniverso della scuola. Ogni relazione insegnante-alunno prevede un reciproco osservarsi, uno scambio a più livelli di impressioni, previsioni, desideri; è necessario che questo processo di distanza-vicinanza mantenga un delicato equilibrio, affinché non imploda nella confusione identitaria (alla maniera di Narciso, che finisce per sprofondare nell’identico a sé) ma allo stesso tempo non sia troppo distante lasciando confinati i due poli in una reciproca estraneità, togliendo il calore che è necessario (natura docet) ad ogni cambiamento. L’arte dell’insegnamento sta nel sapersi mantenere sul crinale, al confine tra identità e differenza, coltivando un rapporto co-evolutivo senza paura di compromettersi, di svelarsi e di accogliere.

Come risolvere la conflittualità con il diverso che riconosciamo, infine, identico a noi? Come vivere la relazione insegnante-alunno assumendo uno sguardo co-evolutivo? Una prospettiva interessante può emergere da una lettura allegorica de “Le notti bianche” di Fëdor Dostoevskij, la storia di una relazione che, in cinque brevi capitoli, prende vita e giunge a termine, ma cambia per sempre la vita dei due protagonisti. È proprio nelle ultime righe che si svela la forza trasformante di quell’incontro, casuale eppure desiderato inconsciamente da tutta la vita. Ecco alcune parole di Nasten’ka:

“Ricorderò per tutta l’eternità l’attimo in cui mi avete aperto il vostro cuore, come un fratello, e con tanta generosità vi siete offerto di accogliere il mio cuore distrutto per proteggerlo, accarezzarlo, guarirlo…” [4]

Poche righe più avanti è ancora la ragazza a riconoscere il cambiamento - potremmo anche dire empowerment - che questo incontro ha provocato dentro di sé, riconoscendosi degna e meritevole di amore quando fino a poche pagine addietro dichiarava scarsa considerazione di sé e una totale mancanza di autostima. L’insegnante deve, in maniera analoga al sognatore protagonista del racconto, assumere la prospettiva dell’amante [5] di don Milani, che promuove l’altro e gioisce dei suoi successi senza volersene impossessare, consapevole che il suo “fare” è un “fare per lasciare”.

Penso quindi alla relazione di aiuto nei termini di un incontro che valorizzi l’altro, rendendolo consapevole delle proprie potenzialità e del proprio valore in maniera quasi profetica. Sarà l’insegnante stesso a riconoscersi cambiato, a crescere insieme ai propri alunni. Generazioni di studenti che nel trascorrere degli anni accompagnerà nel percorso scolastico e che vedrà, di volta in volta, spiccare il volo verso la vita adulta.

di Lino Da Acerce (figlio, padre e insegnante)


[1] A.Canevaro, Nascere fragili. Processi educativi e pratiche di cura, capitolo III, EDB, Bologna 2015.

[2] Cfr. R.Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965.

[3] A.Canevaro, Nascere fragili. Processi educativi e pratiche di cura, capitolo II, EDB, Bologna 2015.

[4] F. Dostoevskij, Notti bianche, Einaudi, Torino 1996.

[5] J.L. Corzo, Don Milani. La parola agli ultimi, La scuola, Brescia 2012.


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