Di generazione in generazione (Lino Da Acerce - figlio, padre e insegnante)
Giuseppina. 89 anni e 8 mesi. Mia nonna materna.
Il primo è uno scrigno di possibilità ancora inespresse, raccolto in 65 cm di lunghezza; la seconda, un profondo serbatoio di storia racchiuso in una mente che, giorno dopo giorno, diventa sempre più inaccessibile. Un pianto talvolta inconsolabile per fame, sonno e fastidi di varia natura, il primo; un mosaico di frammenti di antichi ricordi dentro una completa ignoranza riguardo tempi e spazi della vita quotidiana, la seconda.
“Prendiamo ad esempio un neonato: non si esibisce, esiste, e come
tale è una struttura che interpella […] Le fragilità ci interpellano, interrompendo le abitudini” [1]
In che senso le fragilità ci interpellano? Si potrebbe pensare che
semplicemente ci chiedano cura, reclamando la nostra attenzione, cosa peraltro molto
concreta e tangibile nel pianto notturno di un bambino, o in un’anziana che
richiede presenza costante e prevenzione dei suoi tentativi di fuga. Ma esiste
anche un livello più profondo di connessione, dove entrare in relazione con
un’altra persona fa vibrare identiche corde, rivela un’identica carne.
Perché quel malcelato fastidio di fronte ad un’anziana che
costantemente ti confonde con un altro? Perché la fatica a sopportare
l’ennesimo vagito, l’ennesima richiesta di aiuto? Come spiega René Girard
prendendo in prestito una celebre citazione di Sartre, l’inferno sono gli
altri non perché differenti da noi, ma proprio perché in essi riconosciamo
una parte di noi stessi [2].
Ogni incontro con la fragilità altrui disvela una parte di noi stessi che
preferiremmo dimenticare, nascondere, prima di tutto a noi stessi. Credo si
possa affermare che nessuno è più autentico di una vecchia con l’Alzheimer o di
un bambino di pochi mesi; eppure, questa manifestazione dell’altro davanti a
noi, nella sua unicità, parla proprio di noi: rende evidente la fragilità che
siamo, proclama la fragilità che siamo stati, annuncia la fragilità che potremmo
un giorno diventare. Non è possibile rimanere indifferenti, perché ogni persona
che incontriamo, pur ponendosi di fronte a noi come “totalmente altro”, si
rivela e ci provoca proprio per ciò che riconosciamo identico a noi.
“Ogni incontro tra me e
un altro, in qualche modo mi rivela, rispecchiandomi.” [3]
In un sano e intenso “rispecchiamento”
sta molta parte della relazione educativa, di promozione e di cura, anche
dentro il microuniverso della scuola. Ogni relazione insegnante-alunno prevede
un reciproco osservarsi, uno scambio a più livelli di impressioni, previsioni,
desideri; è necessario che questo processo di distanza-vicinanza mantenga un
delicato equilibrio, affinché non imploda nella confusione identitaria (alla
maniera di Narciso, che finisce per sprofondare nell’identico a sé) ma allo
stesso tempo non sia troppo distante lasciando confinati i due poli in una
reciproca estraneità, togliendo il calore che è necessario (natura docet)
ad ogni cambiamento. L’arte dell’insegnamento sta nel sapersi mantenere sul
crinale, al confine tra identità e differenza, coltivando un rapporto co-evolutivo
senza paura di compromettersi, di svelarsi e di accogliere.
Come risolvere la
conflittualità con il diverso che riconosciamo, infine, identico a noi? Come vivere
la relazione insegnante-alunno assumendo uno sguardo co-evolutivo? Una
prospettiva interessante può emergere da una lettura allegorica de “Le notti
bianche” di Fëdor Dostoevskij, la storia di una relazione che, in cinque
brevi capitoli, prende vita e giunge a termine, ma cambia per sempre la vita
dei due protagonisti. È proprio nelle ultime righe che si svela la forza
trasformante di quell’incontro, casuale eppure desiderato inconsciamente da
tutta la vita. Ecco alcune parole di Nasten’ka:
“Ricorderò per tutta
l’eternità l’attimo in cui mi avete aperto il vostro cuore, come un fratello, e
con tanta generosità vi siete offerto di accogliere il mio cuore distrutto per
proteggerlo, accarezzarlo, guarirlo…” [4]
Poche righe più avanti
è ancora la ragazza a riconoscere il cambiamento - potremmo anche dire empowerment
- che questo incontro ha provocato dentro di sé, riconoscendosi degna e
meritevole di amore quando fino a poche pagine addietro dichiarava scarsa
considerazione di sé e una totale mancanza di autostima. L’insegnante deve, in
maniera analoga al sognatore protagonista del racconto, assumere la prospettiva
dell’amante [5]
di don Milani, che promuove l’altro e gioisce dei suoi successi senza volersene
impossessare, consapevole che il suo “fare” è un “fare per lasciare”.
Penso quindi alla
relazione di aiuto nei termini di un incontro che valorizzi l’altro, rendendolo
consapevole delle proprie potenzialità e del proprio valore in maniera quasi
profetica. Sarà l’insegnante stesso a riconoscersi cambiato, a crescere insieme
ai propri alunni. Generazioni di studenti che nel trascorrere degli anni
accompagnerà nel percorso scolastico e che vedrà, di volta in volta, spiccare
il volo verso la vita adulta.
[1]
A.Canevaro, Nascere fragili. Processi educativi e pratiche di cura, capitolo
III, EDB, Bologna 2015.
[2] Cfr.
R.Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965.
[3]
A.Canevaro, Nascere fragili. Processi educativi e pratiche di cura, capitolo
II, EDB, Bologna 2015.
[4] F.
Dostoevskij, Notti bianche, Einaudi, Torino 1996.
[5] J.L.
Corzo, Don Milani. La parola agli ultimi, La scuola, Brescia 2012.
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