Diventare pedagogista...ai tempi d'oggi. (di Simone Cusini - educatore e laureando pedagogista)



«Chi è il pedagogista? E cosa fa?»
Questa è una delle domande che ci sono state rivolte dai ragazzi frequentanti il Liceo delle Scienze Umane di Bormio durante un incontro a cui abbiamo partecipato per raccontare le nostre esperienze universitarie e lavorative alle generazioni future che intendono lavorare in ambito sociale.
A primo impatto non è semplice rispondere alla domanda in quanto la figura professionale del pedagogista non è ancora riconosciuta in maniera adeguata dalle istituzioni e dalla maggior parte delle persone.
Forse, risulta più semplice rispondere affermando prima ciò che non è il pedagogista.
Di certo, prima di tutto, non è colui che cura i piedi (sì, ne ho sentite tante riguardo a questa figura e una tra le tante assurde definizioni che ho sentito c’è anche questa), non è lo psicologo, ma potrebbe certamente lavorare al suo fianco per progettare interventi educativi di diverse tipologie e fornire sostegno, consulenza, formazione e accompagnamento all’interno delle scuole. Non è l’educatore, ma ha direttamente a che fare con esso, in quanto, lavora sul piano progettuale e di coordinamento rivolgendosi proprio alle pratiche educative di essi. Non è nemmeno l’assistente sociale, ma certamente può far parte di un’equipe multidisciplinare allargata alla quale al pedagogista spetta il compito di agire attraverso pratiche educative e di intervento in diversi ambiti.
Insomma, più genericamente potremmo definire che il pedagogista è:
«Lo specialista dei processi educativi, formativi e pedagogici. È colui che si occupa di sviluppare il potenziale umano e di apprendimento di qualsiasi soggetto in una qualsiasi età evolutiva, attraverso l'osservazione, l'analisi dei bisogni educativi della persona e la strutturazione di interventi di natura pedagogica».
Detto ciò, credo che diventare pedagogisti nel 2024 sia leggermente più complicato perché richiede un’importante propensione alla soggettività altrui e si deve fondare sulla convinzione che l’individualità di ciascuno di noi stia alla base di qualsiasi tipo di relazione o rapporto sociale.
I tempi odierni in cui si vive oggi possono essere definiti in crisi sotto molteplici aspetti e punti di vista; purtroppo, il mondo che osserviamo quotidianamente attraverso i nostri occhi e le nostre esperienze, o che ci arriva filtrato dalle lenti della tecnologia e dai social media, risulta difficile da comprendere, controverso e, talvolta, anche contraddittorio: «Da un mondo di presunte certezze si è passati oggi a un mondo di incertezze»[1].
Il consumismo, che è ormai imponente sulla vita quotidiana di ognuno di noi e sulle nostre scelte, obbliga l’essere umano a dipendere sempre di più dagli oggetti, dalla conquista dell’apparenza perfetta e dalla materialità delle esperienze che rischia di distogliere lo sguardo dal vero valore intrinseco ed emotivo di esse. È una società diventata prettamente narcisistica e autoreferenziale dove l’obiettivo primario sta nella prestazione e nel risultato primo; una società in cui, purtroppo, si sfocia sempre alla ricerca di quel-di-più che sta nel superfluo, nel bisogno consumistico e nel desiderio costruito e controllato dal consumismo che porta a vivere oltre le proprie possibilità e a sostituire «l’avere all’essere»[2]. Può diventare pericoloso vivere solamente secondo questa ideologia consumistica soprattutto per chi lavora nei settori dell’educazione e della pedagogia dove la materialità non ha nulla a che vedere con l’accumulo di oggetti, di traguardi e successi ma, bensì, si trova a confrontarsi con l’umano nella sua soggettività che comprende in toto: emozioni, relazioni, sentimenti, crescita personale, confronto, dialogo, interscambio reciproco, apprendimento, formazione ed autoformazione, autonomia, indipendenza e attenzione. E proprio perché l’essere umano come tale, deve passare attraverso a tutte queste dimensioni, è necessario che la vita non sia orientata solo al consumo ingiustificato per riconoscersi come esseri viventi nella società odierna ma necessita di passare attraverso al vissuto di tutte le fasi della vita che comprendono anche momenti di vulnerabilità, di insuccesso e di disagio soggettivo che aiutano a formare la propria personalità e a raggiungere un’adeguata consapevolezza di sé e degli altri. Per poter sovrastare all’imponenza del consumismo e alle sue logiche individualistiche è importante rimanere a contatto con la propria essenza di essere umano, vivere le esperienze secondo tempistiche e logiche psicofisiche personali, maturare consapevolezza attraverso momenti di vulnerabilità e messa alla prova, prestando attenzione soprattutto alle relazioni con gli altri, alla cura verso di esse e al loro potere trasformativo e altamente auto formativo.
Rimettere al centro la cura relazionale rimane un’esigenza emergente per i tempi odierni in quanto dà la possibilità di mettersi a confronto con l’altro, con il suo essere diverso e potenzialmente formativo a differenza, invece, di ciò che è inanimato, oggetto e pensato solo per soddisfare un bisogno di consumo. Lo stesso Papa Francesco ha riposto l’attenzione sull’importanza della cura, affermato che «servire significa, in gran parte, avere cura della fragilità»[3].
Per questo essere Pedagogisti nel 2024 richiede lo sforzo di tornare a dare importanza alle relazioni umane per poterle costruire attraverso pratiche di cura che possono fare la differenza nell’affrontare situazioni critiche o di difficoltà, per poterci riportare a ciò che è umano, concreto e reale. A ciò che smuove ancora le emozioni e trasforma il mondo.

di Simone Cusini (educatore e laureando pedagogista)


[1] A. VACCARELLI. Le prove della vita - promuovere la resilienza nella relazione educativa, FrancoAngeli, Milano, 2016, p.11.
[2] E. FROMM, Avere o essere? Mondadori, Milano, 1997, p.21.
[3] PAPA FRANCESCO, Omelia della Messa, Plaza de la Revolución a La Habana (20 settembre 2015), in “L’Osservatore Romano”, 21 settembre 2015.

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